La sentenza 29 settembre 2014, n. 20448 della Corte di Cassazione, torna su un tema delicato quale il rapporto tra comodato di un immobile senza previsione di termine e il provvedimento di assegnazione in sede di separazione.

Il caso in esame, è una situazione tipica in cui un genitore proprietario concede un immobile al figlio e dopo qualche anno la coppia si separa. A questo punto confliggono due interessi: quello del proprietario, e quello del coniuge assegnatario che ha ricevuto tale attribuzione proprio in ragione della tutela dei figli alla conservazione dell’habitat domestico.

Il Tribunale di Nardo ha respinto il ricorso del proprietario che aveva agito contro i comodatari (figlio e nuora) per la restituzione dell’immobile, il quale sosteneva che il comodato era a titolo gratuito e senza determinazione di tempo e quindi era legittima la sua richiesta di riottenere l’immobile dietro semplice richiesta ai sensi dell’art. 1810 c.c.

Anche la Corte d’Appello di Bari ha confermato la sentenza di primo grado e così si è giunti alla Cassazione.

Secondo il ricorrente, la concessione dell’immobile in godimento era avvenuta come sistemazione temporanea provvisoria e precaria per i giovani coniugi nell’attesa di altra soluzione abitativa.

Inoltre, l’uomo, lamentava che la Corte territoriale non avesse ammesso la sua domanda di restituzione basata su uno stato di bisogno attuale della propria figlia, coniugata con tre bambini, che richiedeva un alloggio (art. 1809 c.c.).

In definitiva, la sentenza di appello avrebbe errato nel ravvisare nel caso di specie un contratto con determinazione implicita del termine, facendo coincidere la scadenza con raggiungimento dell’indipendenza dei figli conviventi con l'assegnatario. 
La volontà delle parti sarebbe stata quella di condizionare la concessione in comodato al raggiungimento dell’autosufficienza economica dei coniugi, condizione già ormai raggiunta per l’assegnataria, o alla sopravvenuta necessità per il comodante di rientrare in possesso dell'immobile.            
A questo punto la Terza Sezione della Cassazione, con l’ordinanza n. 15113/13, auspicando un ripensamento dell'orientamento giurisprudenziale formatosi con l’importante sentenza del 2004, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che ha assegnato la causa alle Sezioni Unite della Corte.

Infatti, secondo l’orientamento seguito a partire dalla sentenza del 2004, nell'ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull'immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell'assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso previsto nel contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell'art. 1809 c.c.. (Cass. Civ. S.U. n. 13603/2004).

Questa soluzione, che mira a garantire maggiormente le esigenze della famiglia e della prole, non è stata accolta in alcune pronunce della stessa Corte di Cassazione, che in casi analoghi hanno favorito la posizione del comodante.

Infatti, per chi cede in comodato, si avrebbe, in questi casi, una sorta di espropriazione del bene.

Le suddette sentenze ritengono applicabile quindi la disciplina di cui all’art. 1810 c.c. in quanto “il comodato precario è caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vinculum iuris costituito tra le parti è rimessa in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha la facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice richiesta di restituzione del bene, senza che assuma rilievo la circostanza che l’immobile sia stato adibito ad uso familiare e sia stato assegnato, in sede di separazione tra coniugi, all’affidatario dei figli” (Cass. Civ., sez. I, 11 agosto 2010, n. 18619, conforme Cass. Civ., sez. II, 7 luglio 2010, n. 15986 e Cass. Civ., sez. III, 20 ottobre 1997, n. 10258).

I giudici della Consulta, con la pronuncia in esame emessa a sezioni unite, confermano l’indirizzo giurisprudenziale risalente al 2004.

Il comodato di un immobile, pattuito per la sua destinazione a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, da intendersi in tal caso "anche nelle sue potenzialità di espansione", deve essere configurato come comodato a termine di cui all’art. 1809 c.c., intendendo come termine, individuato per relazionem, la destinazione dell’immobile a casa familiare, indipendentemente dall'insorgere di una crisi coniugale.            

Se il contratto ancorava la durata del comodato alla famiglia del comodatario, è giusto che questo perduri fino al venir meno delle esigenze della famiglia.    
Solo le norme in tema di assegnazione (artt. 337 bis e segg. del codice civile), possono prevedere le condizioni per la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari che legittimano l'assegnazione della casa familiare.

Ne consegue che soltanto in caso di urgente ed imprevisto bisogno del comodante, può essere richiesta la restituzione del bene.   
Il bisogno deve avere le caratteristiche dell’imprevedibilità e dell’urgenza e deve essere sopravvenuto rispetto alla cessione in comodato. Resta escluso il bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Inoltre, il bisogno deve essere serio, non voluttuario, né capriccioso o artificiosamente indotto.               
Pertanto, sia la necessità di uso diretto, sia il sopravvenuto deterioramento delle condizioni economiche, che obbiettivamente giustifichino la restituzione del bene anche ai fini della vendita o della locazione del bene immobile, legittimano il comodante a riavere il bene, anche se originariamente destinato a casa svolgere la funzione di essere adibito a casa familiare.

Nel caso di specie, il ricorrente non aveva formulato la richiesta di restituzione fondata su uno stato di bisogno, avendo svolto la domanda solo nel giudizio di secondo grado, sostituendola alla precedente domanda di rilascio prevista per il comodato precario, e quindi la Corte di appello ha correttamente dichiarato inammissibile la domanda nuova.

La Cassazione ha dunque rigettato il ricorso.