L’art. 600 ter C.P. prevede che “Chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui al primo e al secondo comma, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza il materiale pornografico di cui al primo comma, ovvero distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all'adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645”. La Suprema Corte, è giunta a escludere la sussistenza di tale reato, nel caso in cui il soggetto abbia semplicemente utilizzato programmi di file sharing che comportino l’acquisizione e la condivisione, con altri utenti della rete internet, di files dal contenuto pedopornografico, laddove non sia possibile individuare ulteriori elementi che confermino la volontà del soggetto stesso di divulgare il materiale pedopornografico in questione. La Corte d’appello, infatti, aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato, sulla base del semplice fatto che il soggetto aveva utilizzato un noto programma di file sharing, il quale è uno strumento di in-out e che cioè consente, nello stesso momento, di acquisire e condividere il materiale “scaricato”. La Corte territoriale, in particolare, insisteva affermando che se l’imputato avesse voluto semplicemente acquisire il materiale pedopornografico avrebbe utilizzato la funzione di download, senza ricorrere all’utilizzo del programma in questione. Orbene gli Ermellini, hanno affermato, come il semplice l’utilizzo del programma di file sharing in questione, non sia elemento sufficiente per ritenere integrato il reato di cui all’art. 600 ter, comma 3, C.P., qualora non sia accompagnato da ulteriori elementi che indichino in modo incontrovertibile la volontà del soggetto di divulgare il materiale pedopornografico acquisito. La certa ed effettiva diffusione dei files pedopornografici, infatti, che costituisce la condotta incriminata dall’art. 600 ter, comma 3, C.P. deve essere sempre irrefutabilmente accertata. La Corte, per giungere a tale conclusione, si è richiamata a proprie precedenti sentenze nelle quali aveva individuato gli elementi sulla base dei quali ritenere integrato il reato in questione. In particolare la volontà di cui all’art. 600 ter, comma 3, C.P., sempre a detta degli Ermellini, può essere desunta dalla condivisione per un lunghissimo periodo dei files scaricati e dal loro effettivo scaricamento da parte di altri utenti della rete. Infine, la condotta criminosa in questione, è dedotta nel caso in cui il soggetto non si sia limitato a ricercare e raccogliere il materiale pedopornografico, ma abbia fatto una selezione di tali files e li abbia inseriti in un’apposita cartella di condivisione personalizzata.