La Suprema Corte di Cassazione si è espressa di recente (cfr. sentenza n, 4928/2014 della II Sezione) in ordine all’imputabilità al titolare di uno studio medico dentistico della condotta illecita dei propri collaboratori.

Il titolare dello studio presenta ricorso al Supremo Consesso avverso la sanzione disciplinare del Consiglio dell’ordine avente ad oggetto la sospensione dall’esercizio della professione.

In particolare si discute se l’esercizio abusivo della professione odontoiatrica da parte di personale non qualificato possa costituire fonte di responsabilità per il titolare dello studio, fermo che, nel caso in esame, quest’ultimo si esprimeva nella forma sociale della società in accomandita semplice.

Il principale interrogativo verte sulla natura della eventuale responsabilità: essa potrebbe infatti qualificarsi quale “responsabilità oggettiva per fatto altrui” od assumere la più magmatica formula di “responsabilità per omissione di cautela”.

Nel primo caso, per libera opzione del Legislatore con finalità di tutela del terzo danneggiato, il titolare sarebbe chiamato a rispondere per una illecito non strettamente dipendente dalla sua condotta e, comunque, senza che abbia rilievo il dolo o la colpa.

Nel caso di specie la condotta potrebbe - ma la Corte andrà ad escluderlo - essere ricondotta alla fattispecie di “responsabilità dei padroni e committenti” per come delineata dall'art. 2049 del Codice Civile.

In particolare il Legislatore sancisce che, in deroga al generale principio per cui deve necessariamente sussistere un nesso di causalità tra il comportamento del soggetto responsabile ed il danno, siano chiamati a rispondere per il danno cagionato dai propri domestici e commessi i rispettivi committenti e padroni.

Sul tema è necessario tuttavia addurre una precisazione: i preponenti rispondono in via esclusiva del danno che sia stato causato dai preposti “nell’esercizio delle incombenze cui sono adibiti” e, con qualche reticenza interpretativa, non convince che dipendenti non qualificati possano essere anche adibiti a compiti eccedenti le relative competenze.

Precisa infatti la giurisprudenza, e sulla sua scorta dottrina e manualistica giuridica, che nessun preponente può essere chiamato a rispondere in giudizio per atti compiuti dai preposti che siano “anomali” ed irriducibili alla istruzioni od alla mansioni, tra i quali va necessariamente annoverata l’esecuzione di operazioni complesse ed esulanti dalle specifiche competenze certificate.

Resta a margine, con menzione a soli fini di completezza, la necessità dell’elemento soggettivo quale causa giustificatrice di provvedimento disciplinare irrogato dall’Ordine, dato che il concetto di “responsabilità oggettiva” è sconosciuto alla disciplina di questi organi.

Afferma la Corte che la condotta del titolare dello studio medico è da inquadrare piuttosto nella fattispecie di responsabilità diretta per omissione di cautele.

Il ricorrente sarebbe quindi autore dell’illecito, in quanto avrebbe omesso i necessari accorgimenti affinché all’interno del proprio studio non venissero praticate operazioni sui pazienti ad opera di personale privo delle necessarie qualifiche.

Tale fattispecie, notevolmente più duttile si presta meglio a descrivere la condotta negligente del titolare e a giustificarne la responsabilità, tralasciata l’ininfluente contestazione relativa all’ “occasionalità” dell’illecito ed alle presunte pressioni del paziente sul dipendente non qualificato.

Non presenta infatti rilevanza, nella definizione dell’ “illecito civile”, l’eventuale assenza di recidiva, né alcuno può addurre al fine di esonerarsi dalla responsabilità le richieste o pressioni del danneggiato laddove non integrino gli estremi, rigorosamente perimetrati, della “giustificazione” per consenso dell’avente diritto.