Un istituto scolastico aveva incaricato la psicologa che lavorava presso l’istituto medesimo, di esaminare, durante le lezioni, per un periodo complessivo di circa due mesi e con cadenza di due ore settimanali, il comportamento degli alunni della classe seconda elementare.
Tale attività di controllo ed esame, era stato richiesta da due insegnanti della classe e autorizzata in seconda battuta dal dirigente scolastico, senza che però venisse fornita alcuna comunicazione alle famiglie e senza che i genitori, perciò, avessero dato il loro preventivo consenso.
Al termine di tale attività di controllo, la psicologa aveva stilato una relazione clinica, dedicando una parte specifica del documento a un bambino, giacché alunno con problematiche comportamentali. Nella propria relazione la psicologa esprimeva la necessità di segnalare la situazione ai genitori dell’alunno.
La relazione in questione, era stata quindi consegnata alle insegnanti e al dirigente scolastico, che però aveva omesso di protocollarla e, all’insediamento del nuovo dirigente, si era limitata a consegnarla.
I genitori del minore, erano quindi venuti a conoscenza della relazione della psicologa solamente a fine anno scolastico, in occasione di un colloquio con le insegnanti e senza che venisse loro trasmesso alcun documento.
A carico della psicologa dell’istituto, veniva quindi aperto un procedimento penale per aver commesso il reato di violenza privata ex art. 610 C.P. (“Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”).
In primo grado, però, la dottoressa veniva assolta giacché, a detta del Giudice, nel caso di specie l’attività svolta dalla psicologa, ossia l’osservazione dei minori durante le ore di lezione, non si sarebbe sostanziata in atti impositivi riconducibili alla fattispecie tipica della violenza privata. Inoltre, il mancato consenso dei genitori degli alunni, non poteva essere equiparato al dissenso richiesto dall’art. 610 C.P.
La Corte di Cassazione, investita della questione, ha statuito preliminarmente che nel reato di violenza privata, è tutelata innanzitutto la libertà psichica dell’individuo.
In particolare, poi, per quanto attiene al requisito della violenza, la Suprema Corte ha affermato che esso si identifica in “qualsiasi mezzo che sia idoneo a comprimere la libertà di determinazione e di azione della parte offesa”.
In sostanza, quindi, il mezzo di coartazione della libertà di determinazione e azione del soggetto, può consistere anche in una c.d. violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti a esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione.
Nel caso in esame, quindi, prosegue la Corte, si può senz’altro affermare che “l’assenza di un esplicito consenso dei genitori, integri certamente una compressione della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo”, e integri perciò il requisito del dissenso ai fini della sussistenza del reato di violenza privata.
Sotto altro profilo, si trattava altresì di chiedersi se l’attività di osservazione della psicologa, abbia avuto carattere impositivo, o comunque in qualche modo incisivo sulla sfera materiale e psichica dei minori.
Gli Ermellini, hanno evidenziato che, “a prescindere dal fatto che agli alunni siano stati somministrati test o che le lezioni siano state specificatamente modulate, l’osservazione delle condotte in classe, al fine di trarne elementi per formare una valutazione degli alunni sotto il profilo comportamentale, rappresenta un’invasione delle sfere personali degli alunni”.