La Suprema Corte si è recentemente espressa in tema di “straining”, giungendo a condannare il datore di lavoro ad un congruo risarcimento del danno.
Con il termine inglese sopra richiamato, si fa riferimento a una forma attenuata di “mobbing”, con cui a sua volta si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Nel caso di specie, il lavoratore conviveva con una situazione di stress forzato dovuto ai continui scherni subiti nell’ambiente lavorativo che consistevano, ad esempio, nel frequente invio al suo indirizzo di lettere derisorie che venivano poi diffuse tra i dipendenti con suo consequenziale e continuo scherno. Tali comportamenti mortificatori, seppur distanziati nel tempo, avevano provocato una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa del lavoratore. Tale modificazione, secondo la Suprema Corte, è idonea ad incidere sul diritto alla salute e perciò consente di ottenere un congruo risarcimento del danno.
Il diritto al normale svolgimento della vita lavorativa e alla libera e piena esplicazione della propria personalità sul luogo di lavoro, infatti, sono diritti garantiti dalla nostra costituzione, nonché dalla normativa europea.