Nuova sentenza della Suprema Corte in tema di affido esclusivo a favore del padre. Nel caso che si riporta, la madre, oltre a soffrire della c.d. PAS, aveva di fatto impedito un rapporto sereno tra padre e figlia. Di seguito viene riportato l'iter processuale.
Il Tribunale, dopo aver dichiarato la cessazione parziale del matrimonio tra due coniugi, aveva statuito in merito ai provvedimenti accessori, affidando la figlia minore della coppia alla zia paterna per la durata di sei mesi, disciplinando gli incontri tra la minore e i genitori e ponendo a carico di quest’ultimi il versamento di € 400,00 mensili per il mantenimento della piccola.
La madre, aveva quindi proposto ricorso innanzi alla Corte d’Appello, chiedendo che venisse disposto l’affidamento condiviso della bambina ad entrambe i genitori, prevedendo il collocamento della stessa presso la madre. La Corte territoriale, però, ha disposto l’affidamento esclusivo al padre, disciplinando le modalità degli incontri protetti, da svolgersi presso i Servizi Sociali, della figlia con la madre.
In particolare, si sottolineava che la consulenza tecnica d’ufficio, aveva evidenziato che la madre soffrisse della c.d. PAS (Parental Alienation Syndrom). In sostanza la madre, con il proprio comportamento impositivo, aveva condizionato la figlia, la quale “non esprime mai un proprio reale bisogno, ma solo il piacere di compiacere la madre, riscontrando nella stessa una personalità appiattita e fortemente dipendente dalla madre che non le riconosce il diritto di amare il suo papà e agisce con ricatto morale nei confronti della figlia, al fine di realizzare il proprio progetto di vita con il proprio attuale convivente”.
La Suprema Corte, veniva quindi investita della questione dalla madre, che lamentava come la Corte d’Appello avesse statuito sulla base di un diagnosi, senza provvedere alla verifica dell’attendibilità scientifica della teoria posta alla base della diagnosi stessa.
La Corte di Cassazione, però, ha dichiarato infondato il ricorso ritenendo adeguatamente motivata la pronuncia della Corte territoriale. Quest’ultima, infatti, aveva pronunciato la propria decisione fondandola non esclusivamente sulla diagnosi sopra richiamata, ma tenendo in debita considerazione la condotta della madre dalla quale si evince la sua inadeguatezza a svolgere la funzione di genitore affidatario della minore.
La madre, infatti, aveva cercato di esautorare il padre della piccola e di sostituirlo, nello svolgimento del ruolo paterno, con la figura del suo nuovo attuale compagno convivente. La signora stessa, infatti, dichiarava che la figlia chiamava “papà” il compagno della mamma”, mostrandosi perciò indisponibile a qualsiasi tentativo di sostegno e recupero.