Questo il caso: due colleghe di un asilo, erano state condannate dal Tribunale alla misura coercitiva della sospensione
dall’esercizio del pubblico ufficio per la durata di dodici mesi per il reato di maltrattamenti in famiglia commesso nei confronti degli alunni minorenni affidati alle medesime.
Nel caso in esame, le insegnanti, in particolare, avevano creato, in classe, un clima di assoluta tensione emotiva, caratterizzato da urla, reazioni esagerate aventi a oggetto la punizione e la correzione degli alunni, nonché episodi di compressione fisica di varia intensità, trasmodati in alcuni casi nell’utilizzo di
violenza fisica di apprezzabile entità (tutti episodi confermati attraverso i filmati della videosorveglianza).
Avverso l’ordinanza del Tribunale, ricorreva il difensore delle insegnanti. In particolare, veniva lamentato il fatto che il comportamento delle insegnanti non fosse stato inquadrato nella fattispecie dell’abuso dei mezzi di correzione.
La Suprema Corte, quindi, investita della questione, ha perentoriamente statuito che, in tema di bambini, il termine “correzione”, va assunto come sinonimo di educazione. In ogni caso non può ritenersi “educativo” e quindi consentito, l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi; ciò sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più semplice oggetto di protezione da parte degli adulti, sia per il fatto che non può di certo perseguirsi un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza utilizzando un mezzo, quale la violenza, che tali fini contraddice.