La Corte d’Appello aveva confermato la sentenza di condanna pronunciata in primo grado nei confronti di un soggetto che era stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 595 C.P. (“Diffamazione”). Contro tale decisione aveva quindi proposto ricorso per Cassazione l’uomo lamentando, in particolare, la circostanza che i giudici - di primo e di secondo grado - avrebbero mal applicato la norma incriminatrice, valorizzando soltanto il dato della presenza di più persone all’interno della chat e non anche l’elemento decisivo dato dal fatto che la persona offesa era presente, sia pure virtualmente, alle offese e aveva partecipato alla discussione, tra l’altro replicando. Per la difesa, quindi, il fatto doveva al più essere inquadrato nella fattispecie di “ingiuria” aggravata dalla presenza di più persone, che è attualmente depenalizzata.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 36193/22, ha accolto il ricorso, ritenendo fondate le censure mosse dalla difesa dell’imputato. Nello specifico, per la Suprema Corte, i giudici di primo e di secondo grado avevano erroneamente valorizzato la solo circostanza di essere, Facebook, una piattaforma sulla quale tutti gli utenti possono interagire e leggere la sezione commenti. La stessa Cassazione, tuttavia, con sentenza n. 13252/2021, aveva già chiarito che l’elemento discriminante tra la fattispecie dell’ingiuria e quella della diffamazione, è da individuarsi nella presenza o meno dell’offeso tra i destinatari delle comunicazioni offensive. La presenza, in particolare, oltre alla sua accezione fisica, può essere ritenuta sussistente anche quando è realizzata con l’ausilio di sistemi tecnologici.
L’assenza di una qualunque considerazione dei giudici di merito su tale dirimente elemento, ha quindi portato la Cassazione ad annullare la sentenza impugnata.